VECCHIE CONTRADE MILANESI
Ogni città nasce con un suo punto prospettico nel quale, per una inattesa convergenza, si urtano e si fondono gli elementi più tipici: è lì che essa acquista il suo volto caratteristico. Ma questo volto è destinato a cambiare lentamente pel continuo variare di mille particolari; mutamente che, stemperato nel corso degli anni e dei secoli, è quasi inavvertito, proprio come la nostra fisionomia che trascina nella vecchiaia, guastandoli, i segni dell'età matura, nella quale, pur alterati, si possono riconoscere le stigmate della giovinezza.
Dov'è meglio documentata la storia d'una città in tutti i suoi aspetti civili, religiosi, politici, se non nelle sue contrade cioè nelle sue case dove, anche se i secoli le hanno distrutte, permane il ricordo delle vite che ci precedettero e dalle quali discesero a noi virtù e difetti, orgogli e miserie, errori e vittorie?
Milano ebbe sempre, e lo ha ancora, un destino di vivere in perpetua creazione, dando l'immagine di un arco che, alzandosi, si amplia.
Milano nella sua trasformazione ha conservato due caratteristiche che il piccone non demolirà mai: la larghezza espansiva del suo cuore e lo spirito arguto e bonario che l'hanno sempre qualificata per benefica e intelligente.
Milano ebbe sempre, e lo ha ancora, un destino di vivere in perpetua creazione, dando l'immagine di un arco che, alzandosi, si amplia.
Milano nella sua trasformazione ha conservato due caratteristiche che il piccone non demolirà mai: la larghezza espansiva del suo cuore e lo spirito arguto e bonario che l'hanno sempre qualificata per benefica e intelligente.
[...] è indubbio che le primitive abitazioni dell'originaria Milano devono essere state di legno. Qui il bosco era rigoglioso, quindi il materiale copioso e sottomano; d'altronde, per la scarsità delle strade, il loro cattivo stato e la distanza, mancava la possibilità di ricorrere alle colline, ai monti lontani per avere elementi e materiale per costruzioni solide e sicure. Ma per l'ubicazione originaria della città, in mezzo a vastissima pianura, che abbonda di strati argillosi, ab antiquo i Milanesi preferirono nelle costruzioni i mattoni, che si possono fabbricare e cuocere in luogo. [...]
[...] Quando si dice che i milanesi portarono ciascuno la propria pietra al Duomo, non si dice per allegoria. I cittadini andavano proprio a lavorare per niente, a scavare le fondamenta, a portar terre e mattoni; si erano ripartiti in schiere secondo le varie corporazioni artigiane: fabbri, macellai, fornai, armaioli, calzolai, tessitori, sellai, mugnai, pescatori, pellicciai. Oltre agli artigiani lavoravano un giorno gli avvocat
i, un giorno i medici, un altro gli speziali, e così via. Si vide recarsi al lavoro lo stesso Podestà con i magistrati della sua Curia, a dar di piglio alle zappe, e caricarsi sulle spalle le pietre destinate ad alzare le candide mura. Quando venne collocata la pietra dell'Altare Maggiore, davanti ad essa sedettero due cittadini che ricevevano le offerte e le registravano: i libri delle offerte che ancora si conservano negli archivi della Fabbrica dimostrano l'entusiasmo che aveva invaso ogni classe di cittadini. Le donne offrivano le vesti coi bottoni d'argento, le collane, i monili; gli uomini d'arme le loro spade; il contadino le capre, il frumento, le primizie; la massaia il paiolo, la tela, il lino. [...]
[...] è
notissimo come le diverse arti e i diversi mestieri si raggruppassero
in determinati punti colle officine, coi fondaci, coi lavoreri e più
colle botteghe, in determinati punti, preferibilmente centrali, della
città così da dar nome alle vie ove risiedevano. Ecco perché ancor oggi
resistono nelle vecchie contrade superstiti i nomi di Orefici, Spadari,
Armorari, Speronari, Fabbri, Pattari, ecc. Cesare Cantù ricorda che
erano, al principio del secolo scorso - XIX - caratteristicamente
occupate la piazza dei Mercanti da librai, quella del Duomo da
fruttivendoli e rosticciai, piazza Fontana da venditori di tela e di
poponi, commerci speciali scomparsi successivamente quando, per
ordinanze municipali, vennero proibiti vetrine sporgenti e bottegucce e
panchini sulle piazze. [...]
[...] Di quanto i nobili, o almeno una notevole parte di essi fossero avversi a Napoleone, lo dimostra il contegno della contessa Cicogna che non volle mai andare a ossequiarlo. Una sera la contessa sedeva nel suo palco alla Scala e, poiché ella era assai avvenente, Napoleone la fissava con una insistenza provocatoria, senza riuscire a farsi notare da lei, tanto che distolse forzatamente lo sguardo. Vicino alla contessa era, ancor giovinetto, il Manzoni il quale confessò molto più tardi di essersi ricordato di quello sguardo quando compose il "5 Maggio" e gli venne il verso: "chinati i rai fulminei". [...]
Lettura consigliata:
Vecchie contrade milanesi
Vecchie contrade milanesi
Giovanni Cenzato
Edizioni Meneghine - 1962/2008 - 95 pag
Leggi questo libro se vuoi saperne di più sulla vecchia Milano!
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