MONZA
Le Cento Città d'Italia
Milano, 1891 – Anno XXVI – Domenica 25 ottobre
Supplemento mensile illustrato del Secolo al n° 9180
Milano, 1891 – Anno XXVI – Domenica 25 ottobre
Supplemento mensile illustrato del Secolo al n° 9180
[…]
IL LAMBRO
Fiume di corso rapidissimo, fu la prima e naturale difesa dell'antica terra; lorquando questa chiamavasi col nome di Vicus o Villa, ed anche allora che fu detta corte, come all'epoca della Teodolinda. Ma sovenuti i tempi in cui apparvero grosse mura ed alte torri, fecesi il Lambro sussidiario a quelle, ivi portando le sue acque per cingere bastie, animare molini, adacquare prati, e far morlizze per pescagioni più o meno privilegiate. Come elemento strategico, segnò la sua massima importanza nell'anno 1329, all'epoca dell'assedio di Lodovico il Bavaro, il quale, non potendo varcarlo o guadarlo, dovette ascendere e sembra impossibile, fino al ponte di Alliate, tanto fino d'allora valeva il precetto di girare la posizione. Nei tempi medioevali venne sistemato con gran chiusa in muratura proprio alle radici del castello, e con altri sostegni necessarî a trattenere l'impeto delle piene, e più a guarentire i diritti delle molte derivazioni, fra le quali principalissima quella concessa da Giovanni Galeazzo Sforza nell'anno 1474 a Facio Galerano che aveva fondi da irrigare a Carugate.
I LONGOBARDI
Erano stranieri, barbari, ariani, maledetti da Dio, cioè, diremo meglio, dai cattolici, e, fino ad un certo punto, come romani avevano ragione di farlo: eppure codesti feroci, dalle teste rasate sulla nuca e pioventi sul davanti enormI ciuffi e più ispide barbe, avevano in sé stessi i germi di una civiltà arcaica, patriarcale, campereccia da renderli nel decorso brevissimo di circa due secoli, consolidati nella mente e nel cuore di questa regione che ne volle perfino assumere il nome. Teodolinda moglie d'Autari indi di Agilulfo attratta dall'amenità del sito, e forse dalla tradizione militare del Vallum, fu senza dubbio a Monza, come lo attesta un'iscrizione dell'epoca, rimastaci su lamina d'oro in oggi evangelistario del monzese tesoro. Vi ebbe un palazzo e vi partoriva il figlio Adaloaldo, battezzato in San Giovanni dal venerabile servo di Dio Secondo nativo di Trento.
La regina Teodolinda è pei monzesi quella leggendaria figura che Sant'Ambrogio è pei milanesi. Questi fugge la carica vescovile aggirandosi per tre giorni in un bosco, quella fra le alte piante del tortuoso Lambro trovasi faccia a faccia col fiero Precursore che in tuono asciutto gli dice: inalzami qui una chiesa e sarai felice.
E la regina in Monza non solo è ricordata, ma è altresì tuttora amata e venerata quasi fosse morta ieri e non 1263 anni or sono. Si parla di essa come un genio benefico e tutelare, anzi si giunge perfino ad attribuirgli quel poco di bene che altri fecero alla Basilica, non escluso il buon Berengario forse in pel primo coronato colla ferrea.
Fu munificente, perché lasciando cospicui doni alla chiesa da essa fondata, illustrava altamente quella terra che aveva eletta per sua seconda patria, ivi vivendo, ivi morendo, per farsi interrare senza mausoleo come fra le sue genti costumavasi.
DE DONIS DEI OFFERIT THEODELENDA – REGINA GLORIOSISSEMA SANCTO – IOHANNI BAPTISTAE IN BASELICA QVAM – IPSA FVUNDAVIT IM MODICIA PROPE – PALACIVM SVVM-
LE CHIESE
Il Cristianesimo.
Il Cristianesimo.
[…] frammento cristiano d'altissima antichità tuttora incastrato sulla facciata di S. Giovanni Battista. Rappresenta una ruota contenente 8 raggi monogrammatici, indicanti il nome di Cristo. Infatti l'asta di mezzo I è l'iniziale di Iesus, le due diagonali X altro non sono il Chi greca iniziale di Christus, e l'orizzontale rende colle prime la figura della croce, onde il tutto dovrebbe dire Jesus Christus Crucifixus. È inutile soggiungere che il cerchio contenente il monogramma indica l'eternità. E così le prove dirette del Cristianesimo in Monza bisogna ricercarle negli scritti del VI e del VII secolo San Gregorio Magno e Teodolinda vi si affermano nel bel:
San Giovanni. - Vuolsi che in origine sia stato edificato sulla pianta di una croce greca, ampliata poscia coll'aggiungere due absidi agli angoli rientranti superiori, coll'includere la cortina nel corpo della chiesa e coll'aggiungervi le navate laterali. Ma tutte queste trasformazioni sono appena intravedute. Matteo Magno Visconti amplificò quel tempio, Matteo da Campione vi aggiunse la facciata, il battistero e l'evangelicatorio ad ambone, in parte tuttora esistente. L'epoca del barocco camuffò da pretenziosa quella vaghissima sposa lombarda, ma sotto i ricci e le pagliuzze dorate qua e colà trasparono le grazie sue, che sono il sospiro dell'artista e dell'archeologo invocanti un pensiero ed un concetto.
Sant'Agata. - Gareggiava nell'alta antichità colla basilica Teodolindea. Teodaldo vi era sacerdote e custode nell'anno 768, e forse era quell'oratorio il primo nucleo cristiano di Monza, perché vi si conservava la tradizione delle Agapi fraterne, povere cene riducenti, dice il Frisi, ad un'idea dei primitivi Spedali. Noi ne trovammo pure in Cologno, ed il basso rilievo dell'ambone di Sant'Ambrogio in Milano ne dà una grafica descrizione.
San Salvatore. - Essendoci prefissi di toccare con preferenza dei monumenti medioevali, ricordiamo un'altra chiesa, ora scomparsa, fondata nel 769 per testamento di Gradone Diacono figlio di Simpliciano. Era quasi in riva al Lambro, e le Umiliate che poscia l'occuparono chiamavansi Capulie de Lambro, e successivamente la loro casa si disse: Domus Sororum Communis. Nulla può dirsi dell'architettura perché quella chiesa fu demolita nel 1580.
San Maurizio. - Testé demolita per far posto al palazzo della Sottoprefettura, fu altro giojello architettonico del secolo XV, sagrificato ai voli pindarici del nostro. Vi era applicata una sezione della compagnia del Confalone, e l'ultimo giustiziato ivi seppellito fu una donna il di cui cadavere, in occasione di visita archeologica, nell'anno 1880, vedemmo col frammento di capestro tuttora sotto il mento.
Sant'Andrea. - Chiesa d'Umiliati da noi pur veduta, gareggiante pei cotti del rosone colla celeberrima di Santa Maria in Strada; era detta de Cavenago e si hanno ricordi di essa del secolo XIII. San Carlo in lettera 28 settembre 1573, giustificando presso il Cardinal di Como l'intenzione sua di rimuovere le monache di Santa Maria d'Ingino diceva “per essere fuori dell'habitato da tre parti, dall'altro poi congiunto coll'habitato ma in modo che è soggetto alla vista delle case vicine dove anco son frati et massime d'un campanile de frati”.
San Giovanni. - Vuolsi che in origine sia stato edificato sulla pianta di una croce greca, ampliata poscia coll'aggiungere due absidi agli angoli rientranti superiori, coll'includere la cortina nel corpo della chiesa e coll'aggiungervi le navate laterali. Ma tutte queste trasformazioni sono appena intravedute. Matteo Magno Visconti amplificò quel tempio, Matteo da Campione vi aggiunse la facciata, il battistero e l'evangelicatorio ad ambone, in parte tuttora esistente. L'epoca del barocco camuffò da pretenziosa quella vaghissima sposa lombarda, ma sotto i ricci e le pagliuzze dorate qua e colà trasparono le grazie sue, che sono il sospiro dell'artista e dell'archeologo invocanti un pensiero ed un concetto.
Sant'Agata. - Gareggiava nell'alta antichità colla basilica Teodolindea. Teodaldo vi era sacerdote e custode nell'anno 768, e forse era quell'oratorio il primo nucleo cristiano di Monza, perché vi si conservava la tradizione delle Agapi fraterne, povere cene riducenti, dice il Frisi, ad un'idea dei primitivi Spedali. Noi ne trovammo pure in Cologno, ed il basso rilievo dell'ambone di Sant'Ambrogio in Milano ne dà una grafica descrizione.
San Salvatore. - Essendoci prefissi di toccare con preferenza dei monumenti medioevali, ricordiamo un'altra chiesa, ora scomparsa, fondata nel 769 per testamento di Gradone Diacono figlio di Simpliciano. Era quasi in riva al Lambro, e le Umiliate che poscia l'occuparono chiamavansi Capulie de Lambro, e successivamente la loro casa si disse: Domus Sororum Communis. Nulla può dirsi dell'architettura perché quella chiesa fu demolita nel 1580.
San Maurizio. - Testé demolita per far posto al palazzo della Sottoprefettura, fu altro giojello architettonico del secolo XV, sagrificato ai voli pindarici del nostro. Vi era applicata una sezione della compagnia del Confalone, e l'ultimo giustiziato ivi seppellito fu una donna il di cui cadavere, in occasione di visita archeologica, nell'anno 1880, vedemmo col frammento di capestro tuttora sotto il mento.
Sant'Andrea. - Chiesa d'Umiliati da noi pur veduta, gareggiante pei cotti del rosone colla celeberrima di Santa Maria in Strada; era detta de Cavenago e si hanno ricordi di essa del secolo XIII. San Carlo in lettera 28 settembre 1573, giustificando presso il Cardinal di Como l'intenzione sua di rimuovere le monache di Santa Maria d'Ingino diceva “per essere fuori dell'habitato da tre parti, dall'altro poi congiunto coll'habitato ma in modo che è soggetto alla vista delle case vicine dove anco son frati et massime d'un campanile de frati”.
Dal che se ne deduce che ancora in detto anno malgrado la soppressione trascinavano la vita gli ultimi Umiliati di quello antico convento.
Santa Maria de Ingino. - Dunque rispetto al convento di Sant'Andrea distendevasi il vetustissimo monastero di Santa Maria d'Ingino. Abbiamo tra le mani uno schizzo topografico del 1566, e ci pone quel cenobio precisamente nel recinto dell'attuale casa Scanzi. Dipendente direttamente dall'autorità Pontificia, come dal Breve di Urbano II, non seppe resistere all'urto della volontà di San Carlo che nel 1566, divisava riunirlo alla casa di San Martino, e nel 1575, malgrado fierissime opposizioni, mandava ad effetto il suo disegno, come lui stesso lo attesta con lettera di quell'anno al Vicario Cesare Arosio, ed all'attuario Lodovico Moneta. “Vi commentiamo in virtù della presente che ambedue vi trasferiate a Monza per eseguire quello che sapete circa le monache di Sant'Andrea”.
Santa Maria in Strada. - Dalla pianta che abbiamo sott'occhio sembra quasi che la Chiesa di Santa Maria in Strada sia stata ampliata dalla parte posteriore. Fondata ed eretta nel 1357, ne fu architetto un Ambrogiolo da Milano del quale non si conoscono altre opere.
Santa Maria in Strada. - Dalla pianta che abbiamo sott'occhio sembra quasi che la Chiesa di Santa Maria in Strada sia stata ampliata dalla parte posteriore. Fondata ed eretta nel 1357, ne fu architetto un Ambrogiolo da Milano del quale non si conoscono altre opere.
La facciata in cotto è reputata dagli architetti inglesi il più bello esemplare di consimili costruzioni che esista in Italia. Il rosone in ispecie è vero capolavoro di arte per finezza di disegno e buon gusto di composizione. Nell'anno 1870 venne cotal facciata restaurata e completata con materiali de gran lunga inferiori agli originarî. E senza far torto ad alcuno, riteniamo che Santa Maria in Strada avrebbe conservato ben più il suo fare caratteristico medioevale se non fosse stata tocca.
I cotti nuovi sono quasi tutti sgretolati e le pietre delle spalle della porta maggiore spostate, non si sa se dal gelo o per l'incuria nell'esecuzione delle opere. Questa chiesa deve la sua vita alla demolizione di altra ordinata da Galeazzo I Visconti per l'erezione della gran rocca e relativi forni ne' quali andò egli stesso a cuocere alquanto.
San Michele. - La tradizione vorrebbe fosse chiesa eretta da un'ancella di Teodolinda. Vi si ammira un gran dipinto murale rappresentante una messa solenne nel giorno di Natale. Ciò diciamo perché il Diacono stà per cantare il Vangelo di San Giovanni: In principio erat verbum...
Nulla diciamo delle altre chiese le quali colle rammentate fra vecchie e nuove ascendono al numero di ventotto.
IL TESORO
San Michele. - La tradizione vorrebbe fosse chiesa eretta da un'ancella di Teodolinda. Vi si ammira un gran dipinto murale rappresentante una messa solenne nel giorno di Natale. Ciò diciamo perché il Diacono stà per cantare il Vangelo di San Giovanni: In principio erat verbum...
Nulla diciamo delle altre chiese le quali colle rammentate fra vecchie e nuove ascendono al numero di ventotto.
IL TESORO
Il Cimelio più antico
Secondo l'inventario ufficiale del 1879, il più antico cimelio posseduto dalla basilica monzese è la celebre tazza detta di zaffiro. Gli archeologi francesi, e fra questi il Barbier de Montault, negano che quella coppa sia una gemma, ed adducono la testimonianza di Felice Verneilli il quale ebbe a notare che nel secolo XII, il vetro bleu chiamavasi saphir. Fra la negazione dell'oggi e la tradizione di otto secoli noi porremo in mezzo la descrizione dell'oggetto; il quale è una coppa non disegnante un emisfero ma un poco panciuta alla base. Campeggia essa sopra uno piedestallo in oro, cesellato a frascami e a nicchietti, di lavoro moderno imitante il gotico. Ma questa fu montatura del 1490. Un inventario del 1275 così descrive quell'oggetto: item zafirius unus cum duabus ananellinis argenteis dal che se ne arguisce che la legatura della gemma era ben diversa dall'attuale, perché forse data da un cerchio stretto all'orlo superiore con due anelli alla guisa di anse quasi avesse dovuto portarsi alla bocca con ambe le mani. Forse questa circostanza può ricordare un rito civile longobardo, il tracannare d'un fiato, e farebbe riscontro alla tradizione che la regina Teodolinda movendo da Lomello incontro allo sposo Agilulfo, gli porgesse a bere in questa tazza dopo avervi essa stessa bevuto.
Noi per quanto ci inchiniamo alla competenza di chi nella Tazza di zaffiro ravvisa un oggetto usuale, non possiamo a meno di riflettere che se nel secolo XII, il vetro bleu fosse stato generalmente denominato colla voce speciale saphir, nell'inventario del 1353 quella tazza non sarebbe stata descritta colle seguenti parole; “Item, cuppa una zafilii, seu que dicitur esse de zafilio, ligata virgulis argenteis, cum duobus anelis a latere;” provando ciò che fino d'allora la tradizione voleva che la coppa fosse una vera gemma incavata, ma che tale ne sarebbe stata la rarità ed il pregio da legittimare quei dubbî che pur sussistono sì da lasciar responsabile dell'asserto la pubblica opinione. […]
L'Evangelistario
È questo il pezzo meglio conservato del tesoro Flaviano. Destinato in origine a copertura di libro liturgico, e propriamente dei santi fogli evangelici, è fisso in oggi in tavoletta di legno palissandro, né mai viene rimosso dal tiburio della basilica. Consiste in due lastre d'oro inquadrate in un fregio a compasso, formato da lastrine d'oro che sorgono dal fondo riempite di granate, tagliate con tanta precisione che il fregio si giudicava a smalto. (Inventario dell'anno 1879).
IL CASTELLO
IL CASTELLO
[…] Esisteva il fondo d'Ingino, su cui sorse il castello nuovissimo (Visconteo o Forni) […] incominciato nel 1325 da Galeazzo I, andò celebre negli annali storici per le tetre prigioni denominate i Forni, che solo avevano riscontro coi sotterranei di Pavia detti la longa dimora.
Galeazzo I Visconti meritossi col suo superbo disdegno, di prepararsi da sé stesso il proprio castigo, ché messosi a litigare con Lodovico il Barbaro, questi alla tedesca gli disse, va ti nei Forni, e vi si dovette acconciare. Sulle prime non fu edificata che la parte più agguerrita, comunemente detta la rocchetta. Ma nel 1357, come dice il Burocco “fu reparato ed ampliato el castello de Monza, et gettata a terra una chiesa” precisamente la Santa Maria di Incino che era stata eretta per ordine di papa Urbano II. Celeberrima è la difesa che di quella rocca fece Estore Visconti nel 1413, colpito da balestra avanti al pozzo che tuttora fornisce acqua agli attuali abitanti di quel palazzo. Per le ampliazioni e restaurazioni fatte da Galeazzo II, Bernabò, Gian Galeazzo, e Filippo Maria Visconti, era quella rocca castello e palazzo ad un tempo, vi si entrava da ponente, levante e mezzogiorno. Le porte maggiori erano le prime due, quella del torrione era detta del soccorso, e difesa da un rivellino. Eranvi tre torri, la massima rinserrante nel fondo i famigerati forni, quella della Regina altrimenti detta la manganella, ed infine l'altra dei molini sulla punta di sud-est.
Il palazzo, tutto dipinto ed ornato, chiamavasi la Cassinazza, e le finestre altissime erano difese da inferriate, simili a quelle del palazzo Ducale in contrada dei Rastelli. La cucina veniva chiusa con uscio di ferro, e la rocchetta da ponte lavatojo, ubbidiente a speciale congegno che il dito d'un fanciullo faceva muovere. Quella trappola di guerra portava dipinte le insegne ducali e un'iscrizione ne ricordava l'epoca.
Manomesso nel 1525, veniva poscia tramutato a poco a poco per avarizia dai Feudatarii o per ladrerie dei loro agenti. Buona parte delle pietre delle antiche fortificazioni trovansi ora alla Baraggiola, nel palazzo Fondra alle Cascine Bovati, ed infine nelle costruzioni d'abbellimento dei giardini Reali.
Il palazzo, tutto dipinto ed ornato, chiamavasi la Cassinazza, e le finestre altissime erano difese da inferriate, simili a quelle del palazzo Ducale in contrada dei Rastelli. La cucina veniva chiusa con uscio di ferro, e la rocchetta da ponte lavatojo, ubbidiente a speciale congegno che il dito d'un fanciullo faceva muovere. Quella trappola di guerra portava dipinte le insegne ducali e un'iscrizione ne ricordava l'epoca.
Manomesso nel 1525, veniva poscia tramutato a poco a poco per avarizia dai Feudatarii o per ladrerie dei loro agenti. Buona parte delle pietre delle antiche fortificazioni trovansi ora alla Baraggiola, nel palazzo Fondra alle Cascine Bovati, ed infine nelle costruzioni d'abbellimento dei giardini Reali.
L'OSPEDALE E LA CARITÀ'
Il nobile Gerardo dei Tintori nel 1174, infiammato da carità sublime, donava tutto il suo patrimonio ai poveri infermi, facendosi egli stesso loro servo e ministro.
Il nobile Gerardo dei Tintori nel 1174, infiammato da carità sublime, donava tutto il suo patrimonio ai poveri infermi, facendosi egli stesso loro servo e ministro.
Monza città gentile, mai non volle dimenticare il tesoro di beneficenza confidatole dal suo più grande concittadino, e malgrado i colpi dell'avversa fortuna e gli effetti del torlo radente le umane istituzioni, seppe rifondere ed impinguare quel santo patrimonio, destinato a sollevare miserie, a lenire dolori, a rendere salute e vita ad operai onesti e laboriosi. Colà trovarono replicato asilo o vi chiusero in pace i loro occhi le più graziose macchiette della così detta regina della Brianza.
A memoria ricordiamo pel primo “el Gibollat” cantastorie che in Monza lasciò nome proverbiale. El predicator di lobbi, missionario da strapazzo, che per un soldo improvvisava nelle chioderie e stalli, quaresimali da disgradare i primi Segneri del mondo. Il così detto principe Bottiani, pollivendolo insigne della piazza, primo ed insuperabile burlone. El Pacchett grande violinista, come diceva lui di prima manicatura, il cui concerto era tessuto invariabilmente sulla prima strofa della donna è mobile. La celebre Dolinda, mezzo uomo e mezza donna con la maggiostrina anche durante l'inverno, la borsetta ad armacollo, e la pipa di gesso in bocca. Ma la più celebre di tutte fu quella del gran Crispino, preso in dileggio da Monza intiera, eppure sempre paziente ed ilare, perché innamorato cotto d'una gran contessa, cui recava i mazzi di fiori gettati dagli altri al letamaio. Di costoro ben di cuore facciamo qui commemorazione, mentre di essi già ricordossi nella sua cronaca monzese l'egregio Carlo Brusa, giovane rapito sul fior degli anni alle speranze cittadine, e che nelle cose dell'ospedale tentava un giorno cacciare un occhio con plauso di tutti cui stava veramente a cuore il patrimonio del povero.
IL PONTE DEI LEONI
IL PONTE DEI LEONI
Addì 1 settembre 1838, Ferdinando I d'Austria colla moglie Marianna Carolina di Savoja faceva solenne ingresso in Milano, venutovi per farvisi incoronare colla ferrea. Nei quindici giorni che trattennesi in Lombardia, recossi pure alla real Villa di Monza. Secondo la moda d'allora quel felice avvenimento, doveva essere tramadato alla storia con qualche opera edilizia che attestasse il giubilo di quei giorni fortunati. Pensaronci i buoni monzesi, e cogliendo occasione della sistemazione di una via militare per Lecco e pel Tirolo, deliberarono l'aprimento d'una strada interna, volendo che fosse battezzata Via Ferdinandea.
Impaziente il governo che le opere decretate fossero eseguite, commetteva alla Direzione generale delle Costruzioni la compilazione del progetto; il perché l'ingegnere capo Caimi con rapporto 2 agosto assicurava che stava copiando, planimetria generale degli edifici in demolizione; Profilo, disegno di pianta, alzata e sezione del nuovo ponte, ed infine il disegno del ponte detto d'Arena, documento che noi qui riportiamo.
Fra l'altre cose diceva il Caimi che sulle torrette laterali agli aditi di tal ponte vi aveva disegnato quattro leoni sorretti da proporzionato basamento, pensando che nulla fosse più dicevole quanto il proposto finimento, molto più che il comune erasi dichiarato disposto a sostenere del proprio l'occorrente maggior spesa. Ammessi i quattro leoni, veniva aperta l'asta rimanendone deliberatario il capomastro Antonio Bardelli per la somma di £ 70,000 rispetto alle opere di costruzione, e di £ 1433 rispetto alla cessione dei materiali del vecchio ponte. I leoni sono opera del celebre Tantardini.
IL MONUMENTO A VITTORIO EMANUELE II
IL MONUMENTO A VITTORIO EMANUELE II
La morte di Vittorio Emanuele molto scosse la città di Monza, la quale […] deliberava fosse al defunto sovrano posto nella sala del consiglio un ricordo in marmo con effigie. Ma la cittadinanza, giudicando che quel deliberato troppo tradisse le ragioni di un'austera economia, iniziava pubblica sottoscrizione perché alla lapide fosse sostituita una statua, ciò che tosto diede agio a bandire un concorso. Fra i molti bozzetti piacque quello del monzese Luigi Crippa, cui diedesi l'incarico di tradurlo in marmo.
Vi si accinse egli con fede d'artista, e tanto fuoco mise nell'opera da lasciare a Monza la soddisfazione d'essere fra le città d'Italia la prima ad inaugurare un monumento al gran soldato dell'indipendenza nazionale. La cerimonia avvenne infatti nel mattino del 16 settembre 1878. Vi intervenne re Umberto indossante l'alta uniforme di generalissimo. La regina vestiva abito bianco elegantissimo, e framezzo a numerosi invitati ed a cittadini d'ogni ordine e gradazione politica, due soli furono i discorsi pronunciati, l'uno dal sindaco cavalier Giuseppe Ferrario, l'altro dal Sotto Prefetto comm. Guaita, i di cui concetti ricordavano quelli del panegirico di Plinio a Trajano.
Sebbene quell'opera d'arte sia stata diversamente giudicata, pure ha il pregio di rendere perfettamente l'immagine del soggetto, e se la sua piantata, composizione, linea artistica, e proporzionalità di forme lasciano campo agli incontentabili d'esprimere le loro critiche, non è a dimenticarsi che, nell'assieme tradisce l'impazienza dell'autore, il quale stretto in limiti angusti di tempo e mezzi, fece quanto umanamente era concesso ad artista abile coscienzioso e disinteressato.
IL MONUMENTO A GARIBALDI
IL MONUMENTO A GARIBALDI
Il fascino che Giuseppe Garibaldi seppe esercitare sul popolo, irradiò mirabilmente in Monza, i cui figli furono buoni patrioti, volenti soldati, indefessi volontarî in tutti gli appelli loro fatti dall'eroe dei due mondi. Garibaldi molto amò Monza, che pur volle visitare, come l'attesta un'epigrafe poste dove una volta aprivasi l'albergo che l'ebbe ad ospitare. Ma questo spirito d'alto patriottismo, più che instillato dall'energia politica del momento, è vero vanto di educazione civile. Fin dal '48 il monzese De Antichi, antesignano d'eroismo, volando alle barricate e guidando insorti alle mura di Milano, col fucile alla mano immolava se stesso alla patria. E coloro che poscia divennero colmi e compassati, al Tonale e Rocca d'Anfo si batterono valorosamente. Ricordiamo fra costoro il compianto avvocato Luigi Porta. Nel 1859, Monza rimase alla lettera deserta di gioventù. Nel 1860, il diciassettenne Achille Mapelli aveva la ventura di volare fra i Mille di Marsala, e dietro lui accorrevano ben ottocento volontari, portando in quelle contrade sensi di patriottismo vero, di abnegazione costante, di onestà inalterata. Vi tornarono in buona parte a Mentana, e pur fuvvi quello specchiato cittadino di Gino Galimberti, il quale il giorno dopo dell'immortale disfatta, dal campo istesso ci scriveva: “Come ben sai anche questa volta non seppi resistere, era troppo lusinghiera l'ondata a Roma, troppo importante la causa che ci chiamava. D'altronde le difficoltà che sul principio presentavansi per recarsi al confine mi decisero a muovermi per dare l'esempio agli altri”.
Mesto ma non scoraggiato, ritornava in patria ad esercitarvi mercatura, conservando inalterata la serenità dello spirito, la modestia di sé stesso, e la coscienza d'aver fatto il proprio dovere. Il perché meritamente sulla sua tomba nel giorno 20 novembre 1879 scrivevasi: “A Luigi Galimberti di Monza / anima nobile gentile benefica / fervente patriotta valoroso soldato / integerrimo commerciante.”
Mesto ma non scoraggiato, ritornava in patria ad esercitarvi mercatura, conservando inalterata la serenità dello spirito, la modestia di sé stesso, e la coscienza d'aver fatto il proprio dovere. Il perché meritamente sulla sua tomba nel giorno 20 novembre 1879 scrivevasi: “A Luigi Galimberti di Monza / anima nobile gentile benefica / fervente patriotta valoroso soldato / integerrimo commerciante.”
Con tali uomini era ben naturale che accanto alla statua del monarca generoso, sorgesse quella dell'eroe popolano, la cui dolce fisionomia, il calmo e dignitoso contegno, la posa ferma e terribile, riassume in sintesi felicissima i più alti concetti della virtù serenamente esercitata, dello amor di patria, nutrito senza secondi fini, della lealtà vera non pretestata, di quell'orizzonte infine che vagheggiato da tanti martiri vorremmo conservasse ognora le poetiche tinte di quegli albori felici. Garibaldi in Monza, è opera egregia dello scultore Ernesto Bazzaro, ed inaugurata nel giorno 3 giugno del 1886, è là melanconicamente posante nella piazza Isola. Scultura di stile avvenirista, a prima giunta, sembra in essa affettata la noncuranza dello scalpello, ma ben meditata tutto rivela il fuoco dell'artista attinto nel sentimento elevato di quel sublime soggetto.
LUIGI ZERBI
Edoardo Sonzogno fonda a
Milano, il 5 maggio 1866, Il Secolo, il più importante quotidiano di
tutto l'Ottocento italiano. All'affermazione del giornale contribuì
sensibilmente la pubblicazione di Supplementi, che venivano spediti
gratuitamente agli abbonati. Così fu anche per le Cento Città
d'Italia, uscite mensilmente fra il 1887 e il 1902. Le illustrazioni di Cento Città d'Italia arricchiscono il testo.
Ringrazio l'amico collezionista Mirko Valtorta per avermi concesso la lettura cartacea di questo articolo.
Lettura consigliata
Le Cento Città d'Italia - Monza - Supplemento mensile illustrato del Secolo del 25 ottobre 1891
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