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martedì 31 gennaio 2023

Antonio Mancini, l'artista

 

ANTONIO MANCINI

L'artista

 Il Secolo XX

  Gennaio 1911
Anno X - N°1
 
 
   
Nella serie dei maggiori artisti contemporanei che il Secolo XX va pubblicando, non deve mancare un pittore dei più grandi e più originali, non deve mancare Antonio Mancini, che ancora giovinetto destò la meraviglia di Domenico Morelli, il maestro dei maestri, famoso anche all'estero. E' forse l'unico artista contemporaneo del quale finora non s'era mai pubblicato un profilo, né  in giornali quotidiani, ne in riviste. Spirito indipendente e scontroso, egli rifugge da ogni réclame e si annoja quasi che si parli di lui e non si confida facilmente coi giornalisti e coi critici d'arte. Arturo Lancellotti, l'autore di questo articolo, è uno dei pochi che sia nelle sue grazie e possa avvicinarlo spesso, onde la ricchezza di notizie e di aneddoti sconosciuti a qualunque altro che egli ha potuto riunire in queste pagine [...]

L’ORIGINALITÀ DELL'ARTISTA
La qualità peculiare dell'arte di Antonio Mancini è la plastica riproduzione del vero. Guardate uno dei suoi quadri, qualunque esso sia. E questa verità, alla quale egli presta tutte le risorse della sua smagliante tavolozza, dà ai quadri di lui un carattere ben definito per cui non possono confondersi con quelli di nessun altro pittore. Tale la ragione precipua del successo.
Le sue figure spiccano sulla tela in tutta l'armonia della linea e del colore. Il volto, le mani, hanno la morbidezza, la flessibilità, l'intonazione della carne; le stoffe, nel loro aspetto ruvido o delicato, non si mascherano dietro alcuno artificio; e se nel secondo piano del quadro ci sono fiori o mobili, noi li troviamo resi con non minore sincerità. [...] Antonio Mancini è capace di ripetere in parecchi esemplari un identico tema, è capace di mettere accanto a una caratteristica e pensierosa figura di vecchio un prosaico fiasco di vino.
Questo può provare che il soggetto è per lui cosa del tutto secondaria, cosa estranea alla pittura, la quale deve vivere per energia propria, per un'energia che nessun tema le potrebbe, da solo, mai dare.

I PRIMI SUCCESSI
Antonio Mancini è nato a Roma il 2 novembre 1852. A tredici anni si trasferì  a Napoli con tutta la famiglia, e dopo aver, per qualche tempo, costretto dal bisogno, lavorato da indoratore, cominciò la sua educazione artistica a quell'Istituto di Belle Arti sotto la guida di Domenico Morelli e dello scultore Lista, il valoroso maestro di Gemito e d'Orsi.
Egli fu un ingegno precoce. Nato pittore, i suoi primi studi rappresentarono, più che la promessa, l'affermazione del suo straordinario temperamento. E cominciò a trovare ammiratori non solo fra i compagni ma anche fra i maestri. Domenico Morelli si fermava spesso, all'Accademia, a contemplare quanto produceva il prodigioso fanciullo. 
Una volta il Morelli, passando dalla bottega di un rigattiere, fu colpito da un piccolo quadro, che riconobbe subito dipinta dal Mancini. Dopo essersi indugiato innanzi all'opera, manifestando, con ripetuti cenni della testa, la sua schietta ammirazione, si recò all'Istituto, e chiamato a sè uno dei più fidi discepoli, lo pregò di andare dal rigattiere a comperargli quel quadro. Se ci andassi io - disse - potrei essere riconosciuto e allora pagherei troppo alto l'acquisto.
Il discepolo si affrettò a contentare il maestro, e, recatosi sul posto, posò gli occhi con simulata indifferenza, sul piccolo quadro. 
"Quanto vuoi per levarti questo impiccio?" "Duemila lire."
Il giovane meravigliato, chiese al negoziante se per caso non gli fosse dato di volta il cervello. E quello, prontamente:"No, caro signore. Se foste passato un'ora fa, vi avrei lasciato il quadro anche per dieci lire. Ma poc'anzi si è fermato qui don Domenico Morelli, ed è rimasto a lungo a contemplare, entusiasta, questa mezza figura. E, per me, ora, non vale meno di duemila lire."
[...] E il Mancini, come altri vari giovani del suo tempo, pure essendo ammirato e protetto dagli stessi maestri, dovè stentare molto prima di vendere a condizioni non dirò vantaggiose ma decenti.
Le sue opere giovanili sono piene di grazia pittorica, senza essere nè affettate nè leziose. Già si vede in esse quella sincerità, quel colorito sobrio, gustoso, quella fattura franca senza malizia e senza trucchi volgari, che, poi, dovevano meglio esplicarsi nelle opere successive.
[...] Tuttavia, ai tempi in cui vennero eseguite, il giovane autore, insofferente di ogni freno, deciso a far da sè con uno stile tutto proprio, trovava difficile il successo. 
Nel 1874 decise di recarsi a Parigi, a questa moderna Mecca degli artisti, insieme con Vincenzo Gemito e col Fabbron, distinto pittore.
Ivi si trovò nel suo elemento, strinse subito amicizia col De Nittis, nella cui casa si davano convegno le celebrità dell'arte e della letteratura, e potè conoscere i maggiori rappresentanti dell'impressionismo, cominciando da Edoardo Manet, il maestro di tutti, che gli tributò vivissime lodi per un suo quadro. Più tardi il grande negoziante Goupil lo invitò a lavorare per la sua Ditta.
Fu allora che lo stile del Mancini si irrobustì di tutti gli ammaestramenti che egli poteva trarre in un suolo artistico ferace come quello di Francia; fu allora che esso si formò.

In Campagna - 1921 - Galleria d'Arte Moderna Milano

MANCINI IN FRANCIA
[...] Antonio Mancini entra risolutamente nella scuola del verismo e ne rimane una delle forze più tenaci. Ma il suo verismo non ha niente di comune con quello degli altri pittori italiani. Pel Mancini, il soggetto non ha alcuna importanza: egli si preoccupa poco di dare movimento alle sue figure, e, tanto meno, di cogliere uno di quei momenti fugaci di espressione che fanno disperare i più arditi e valorosi impressionisti. Egli non è ricercatore di linee eleganti,e nemmeno un sinfonista del colore. Egli mira solamente a fare una pittura sana e forte che, solo, per sapienza di toni e di rapporti emuli il vero. Ed è lotta veramente titanica quella che il Mancini impegna quotidianamente per cercare di fissar l'immagine del vero, l'immagine che vede come nessun altro. 
[...]Ciò avvicina l'artista ai grandi pittori Velasquez e Franz Hals, da cui soprattutto pare abbia assimilato l'aria sorridente eternamente che ravviva i suoi ultimi lavori, dandoci un'impressione gioiosa di cose e uomini, offrendoci la visione della sanità e della luce in armonioso connubio. E tale visione si deve alla sua tecnica tutta personale a grosso impasto, spesso emulante, per lo spessore, il bassorilievo, fremente nelle miriadi di pennellate nervose. 

NELL’INTIMITÀ
Antonio Mancini, che si è conquistata fama di grande pittore non solo in Italia, ma anche in Francia e in Inghilterra (dove nel 1889 visse molti mesi e compì molti ritratti), è una delle più caratteristiche figure che abbia mai avuto il mondo degli artisti. Indole di bohémien egli vive, nella Capitale, ancora quella vita modesta che menava ai primi anni della sua carriera, quando gli mancavano quei mezzi economici che ora, non forse nella misura che meriterebbe  ma certo largamente, possiede. Semplice nel vestire, è semplicissimo nei modi e non è difficile avvicinarlo a chi abbia la rassegnazione di frequentare, per un po' di tempo, l'umile osteria nella quale ama compiere i suoi pasti. Allora è un divertimento sentirlo discorrere a scatti, con un'idioma in cui entrano in parti uguali il dialetto romanesco e quello napoletano, con tutto il florilegio degli accidenti e dei mannaggia. Bisogna stuzzicarlo perché dia la stura: ma quando ha incominciato non la smette più. E sono osservazioni argute e salaci, condite di grasse risate, sulla tecnica pittorica dei colleghi, sulla scarsa remunerazione e nomea che un artista trova in Italia.  
Quale grande ingegno non ha i suoi difetti? E i difetti di Mancini si riducono a due soli: quello di non vedere, all'infuori del proprio lavoro e di quanto gli somiglia, quasi mai nulla di bello, e quello di pianger sempre sulla sua miseria, che un tempo è stata certamente autentica, ma che oggi non esiste più. 

L'ARTISTA AL LAVORO
Antonio Mancini è inavvicinabile soltanto nel suo studio (dove, del resto, non c'è nulla da vedere, perché i suoi quadri o vengono trafugati da qualche modella prima che siano compiuti, o partono, diretti al committente, non appena ultimati).
Quando lavora non conosce nessuno. Bussano alla porta. 
"Chi è?" - grugna il maestro, già irritato, dal i dentro.
"Sono io professore..." - "Ah! Il professore non c'è..." - "Ma se è la sua voce..." - "Non c'è, vi dico. E' occupato col modello."
E se l'importuno visitatore non se la batte subito, rischia di sentirsi snocciolare tutta una litania di madonne e i santi. 
[...] è molto interessante vedere Antonio Mancini al lavoro. Egli colloca la tela da dipingere all'estremità della sua lunga stanza da studio e siede su un ampio divano che si trova all'estremità opposta. La sua attenzione è concentrata nello sforzo di afferrare, nella loro realtà, tutti i particolari del modello su cui tiene a lungo fisso lo sguardo.
D'un tratto si alza come preso da una subitanea ispirazione, attraversa di corsa la distanza che lo separa dalla tela, e, col suo lungo pennello (un pennello fenomenale, il più grande che io abbia mai visto fra le mani di un pittore) dà un energico colpo all'opera già cominciata. Quindi retrocede, allontanandosi a poco a poco, per giudicare dell'effetto, e, quando questo gli sembra ben raggiunto, manda ogni sorta moccoli: figuriamoci, in caso contrario! Ma se il modello, invece di essere un povero diavolo di professione, è una signora che posa per un ritratto, allora cambia scena. Ed ecco un Mancini timido e cerimonioso, che chiede per favore, un mutamento di gesto, un Mancini, insomma, che non si riconosce più. 
I quadri dell'illustre pittore romano sono tutti dipinti per mezzo del reticolato, che egli sovrappone alla tela su cui aderisce perfettamente. 
Dopo aver compiuta l'opera, strappa via il reticolato. Ed ecco la ragione di quei lunghi segno che si veggono per diritto e per traverso su tutte le sue opere. Il sistema non costituisce una specialità, che molti altri pittori vi ricorrono. Ma quello che mi pare originale è ciò: che il Mancini pone un altro identico reticolato innanzi al modello. In tal modo ottiene quell'esattezza di toni e rapporti che formano l'essenza del valore de' suoi quadri. E' questa una trovata per facilitare il proprio lavoro? Se pure, essa lo è per Antonio Mancini e non potrebbe esserlo per qualunque altro. Poiché un artista del valore suo, può produrre opere egregie anche senza reticolato, ma un artista di valore inferiore, ricorra pure a tutti i reticolati del mondo, non vi riuscirà certamente. Non è vero, maestro? 
Arturo Lancellotti

Riflessi - 1920 - Gallerie d'Italia Milano

Nel 1902, l'editore Treves scende in campo con Il Secolo XX. Rivista popolare illustrata; la vecchia Illustrazione Italiana ha già il suo pubblico e all'editore è necessario un mensile popolare da usare come palestra per la propria scuderia di autori. Gerente responsabile è Elia Ghiringhelli. Il mensile affronta argomenti di cronaca, attualità e letteratura. Dal 1907 anche Il Secolo XX si aprirà sulle eleganti copertine a colori di Duilio Cambellotti, Rodolfo Paoletti, Luigi Bompard. Numerose le illustrazioni e le foto; fino al 1933, anno in cui cessarono le pubblicazioni, avrà come collaboratori più assidui tra gli illustratori Marcello Dudovich, Enrico Sacchetti e Filiberto Mateldi.
 
 
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